Post virus. Così, banalmente

Lo riconosco, questo articolo – sin dal titolo – potrebbe tranquillamente rientrare nella categoria banalità del bene o bontà del banale.
In quel luogo dove risiedono le evidenze, in quello spazio che, al contempo, resta spesso così poco visitato e utilizzato.
Quando poi scoppiano le emergenze, dimentichiamo la nostra stessa dimenticanza e tendiamo a costruire strutture mentali complesse, a cercare soluzioni socio-economiche ardite, a individuare rimedi assistenziali inarrivabili.

Si crea, così, un bailamme della comunicazione, privata, sociale, politica, istituzionale, finanche scientifica (quella che avrebbe dovuto rassicurare e, invece, è finita nel turbine della vanità e del self branding), difficile da interpretare e poco utile per orientare scelte e comportamenti.
Alla fine del quale – ma anche durante, per la verità – finiamo per chiederci se il Covid-19 sia stato il solo virus a colpirci.
E se, come da più parti si sente, dall’attacco di un virus dovremmo imparare lezioni di varia natura, da una pluralità di virus, avremmo un’enciclopedia di nuovi saperi da apprendere.

Nell’attesa, preferisco restare alle basi della nostra esistenza collettiva, finalizzata alla realizzazione di un tessuto comunitario integrato e solidale, base necessaria per l’innalzamento di concetti quali solidarietà, responsabilità, sostenibilità. Lealtà e assistenza.

No taxation without representation, urlavano nel 1700 i colonizzati degli USA.
No care without taxation, potremmo parafrasare noi, oggi.

E allora, in un crescendo di passione e attenzione per il dato, come se cercassimo in esso le rassicurazioni, le informazioni, i conforti, quando non addirittura gli elementi predittivi che sono venuti meno a causa di un’inadeguata capacità divulgativa, mi sono allineato al trend e ho preso due parametri oggettivi, uno legato alla contingenza, uno invece di carattere strutturale.
Assumendo, per l’uno, come base dati, la percentuale di popolazione sottoposta a tampone alla data del 30 aprile 2020 (fonte, Protezione Civile) e, per l’altro, la percentuale di evasione fiscale alla data del 31 dicembre 2016 (ultima data di rilascio di informazioni pubbliche, elaborazione CGIA su dati MEF) e avendo come costante territoriale l’elemento regionale, viene fuori questo semplice (anch’esso, banale, se ci pensate) grafico.

Vi state chiedendo dove sia la correlazione?
Lasciate perdere, non sforzatevi di cercarla perché non c’è.
Sarebbe stato, del resto, naturale (banale) trovarla, se solo avessi adottato lo sguardo dello statistico e mi fossi concentrati nel mettere in relazione fenomeni omogenei.

Ma, essendo diversamente banale, mi trovo, ancora una volta, a ricontrare (banalmente) – da osservatore – come le cinque regioni meno performanti in termini di monitoraggio clinico attraverso la somministrazione di tamponi siano proprio quelle dove è maggiormente rilevante il fenomeno dell’evasione fiscale.
Tralasciando considerazioni (che sarebbero opinabili) sulla leva comunicativa (intrigante, divertente, farsesca, coinvolgente) a cui hanno fatto ricorso alcuni Governatori di queste regioni per gestire una situazione concretamente complicata, non possiamo negare che esista un’incidenza – non solo ideale – tra lealtà (contributiva, quella su cui si fonda una comunità di pari) e disponibilità di assistenza (quella che occorre sempre e, soprattutto, in frangenti emergenziali come quelli che abbiamo e stiamo vivendo).

Utilizzando un’altra facile (banale) parafrasi, non chiediamoci cosa il nostro Paese in emergenza può fare per noi ma cosa noi possiamo fare ordinariamente per il nostro Paese.
O cosa avremmo potuto fare. Perché, considerando i valori in euro dell’evasione fiscale, possiamo serenamente affermare che, se avessimo tutti pagato tutto, avremmo potuto, in queste settimana, tamponare il 20% della popolazione oppure, a scelta, contare su 1.900.000 medici in più o disporre di 5.320.000 ventilatori polmonari in aggiunta a quelli esistenti.

Arrivati a questo punto, dopo tutta la pappardella, vi starete chiedendo perché queste riflessioni qui, sul blog di una società di consulenza marketing e comunicazione.
Vi rispondo che, per qualche anno, siamo stati coinvolti in attività di posizionamento di contenuti relativi a progetti di educazione finanziaria. C’è stato, infatti, un momento in cui questo tema sembrava dovesse essere un must per chiunque operasse nel settore bancario o attiguo.
Il più delle volte, argomenti retorici, narrati da personaggi imbiancati, attraverso modalità antiche. Qualcosa di molto autoreferenziale e scollegato dal quotidiano, soprattutto considerando il target ideale: adolescenti e studenti universitari.

Ecco, se proprio penso a cosa, in termini di proposizione, potrebbe insegnare l’emergenza coronavirus è che l’educazione resta un valore fondante, che non esiste a valle comunicazione efficace (divulgata e percepita) senza un’efficace attività di educazione a monte, che l’educazione finanziaria non può viaggiare disgiunta dall’educazione civica, che il perno del civismo resta la contribuzione secondo le proprie capacità e per quelle che sono le necessità collettive.

Magari, partendo proprio dal banale grafico qui riportato, è bello immaginare che una fondazione o una banca o un’impresa mass market, insomma, chiunque in questi anni abbia adottato l’educazione finanziaria quale argomento posizionante nel campo della responsabilità sociale, decidesse di agire sul territorio e spiegare, con l’esempio concreto dell’emergenza appena vissuta e di cui tutti avremo memoria negli anni a venire, che fare il proprio dovere è – banalmente – non solo leale e necessario ma anche opportuno e utile. E che la finanza, in fin dei conti, resta sempre ed essenzialmente una (co)scienza sociale