Book experience. Ovvero per una nuova cultura aziendale.

Questa chiacchierata nasce da una riflessione più ampia, dalla lettura dei dati sulla lettura, da oltre un anno di pandemia, da un contatto serrato tra azienda, consulenza e mondo dell’editoria. L’esperienza di anni di comunicazione prima e di libreria e gruppi di lettura poi, ci dice che il libro, e la lettura, possono essere uno strumento di people engagement o welfare aziendale. Una leva per creare senso di appartenenza e motivazione, un’esperienza di conoscenza e ben-essere. Un’occasione di superamento di crisi o di messa a fuoco di temi sensibili. Intorno a un testo scritto, più liberi e rilassati, emergono opinioni, punti di vista, sensibilità e talenti, propensioni e attitudini. E qualche volta anche desideri, aspirazioni e sogni.

E allora ci piace immaginare un futuro, non tanto lontano, in cui questa chiacchierata possa dare il via a un progetto di lettura in azienda. A una proposta per le risorse umane, per progettare e realizzare una nuova modalità di lavoro. Un approccio innovativo ai momenti di trasformazione, una stanza tutta per sé per recuperare contiguità e condivisione di informazioni e, soprattutto, di valori.
E l’esperienza dello smartworking ci sta aiutando, almeno in ciò, a misurare la rilevanza di queste esigenze. Oppure, semplicemente, questo progetto potrebbe costituire un luogo di condivisione e ristoro. Una sosta durante il pranzo, un aperitivo virtuale prima di cena.

Ingresso libreria.

G. Ciao Daniela (confidenziale)
D. Ciao (prudente e perplessa)
G. Non mi hai riconosciuto?
D. No, scusami, hai ragione… ciao Giuseppe, è solo che con casco, mascherina… e poi sono mesi che non ci vediamo.
G. Hai ragione, sono in moto e mi sono fermato per salutarti.
D. Hai fatto bene. Come ci sta insegnando la pandemia, “se ti senti di fare una cosa falla adesso, non rimandare”.
G. Sì. È così. Ti leggo, sempre cose interessanti.
D. Grazie. Dovremmo approfondire, anche tu scrivi bene, lo sai.
(convenevoli)
G. Allora, a presto!
D. OK, se ti ritrovi a passare, dopo la pandemia, ti offro un buon caffè: qui di fronte lo fanno bene. Ciao.
G. Ciao. Saluti a Alfr.

Accade sempre così. Ecco perché le piace la strada, ecco perché ha aperto uno spazio così, perché le piace fermarsi a parlare con le persone. Ad ascoltare vite e storie. Trascorre qualche giorno e quella chiacchierata torna. Si mette insieme al pezzo su cui ragionavo da un po’. Gli amici della libreria. I clienti. Le persone. E le aziende e le risorse umane.

D. Ma tu vedi se non è Giuseppe la persona giusta con cui parlarne. Siamo diversi. E perciò potrebbe essere interessante. Alfr, lo conosci meglio, gli scrivi tu?
Alfr. Giuseppe, ho un pensiero. Parliamo?
G. Ma tu pensi meglio di sabato?
Alfr. Sì, quando mi rilasso, gli altri giorni meno… secondo te, qual è il tema più critico su cui si interroga un’organizzazione pubblica o un’azienda?
G. E me la poni così, la domanda?
Alfr. Sì, così, io certi giri di parole non ho mai imparato a farli. E poi, per la verità, la domanda me l’ha un po’ suggerita Daniela…
G. Aspetta, ci penso. E poi, allora, ne parlo con Daniela.
Dopo qualche giorno, ci incontriamo e ne parliamo.
G. Dovrei riuscire a centrare l’essenza della questione. Se non il più importante – come io credo -, è senz’altro uno dei presupposti indispensabili per affrontare correttamente una qualsiasi questione e, sul piano comunicativo, per creare una relazione con gli altri e… anche con sé stessi!
Scusa la divagazione, ma mi stai facendo pensare alla sua negazione, ormai un vero e proprio mantra: «il problema è un altro!».
È un’espressione per me odiosa perché, spesso, non sottintende che l’interlocutore abbia posto il focus su un aspetto marginale o comunque secondario rispetto a quello principale: semplicemente, viene fatta propria da soggetti “ego-centrati”, autoreferenziali, che non sono abituati a legittimare le versioni – mi sembra particolarmente efficace chiamarle «i
punti di vista» – degli altri.
Certo, non è facilissimo cogliere «l’essenza della questione» che mi avete sottoposto. Provo, cari amici di Estrogeni, a riformularla così: «trova un tema di potenziale crisi all’interno delle organizzazioni pubbliche o aziendali». Giusto?
D. Giusto, il quesito è quello ma come lo dici tu sembra un’altra cosa. È perfetto.
G. Grazie.
D. Vabbè, approfondiamo, allora, mi interessa perché sto ragionando su una questione essenziale per me e magari si integrano. Su cosa ti concentreresti, se dovessi parlare di risorse umane e dei problemi più frequenti che interessano un’organizzazione con tante persone?
G. Vorrei soddisfare la richiesta evitando la modalità «brevi cenni sul creato» e quindi, mantenendomi su una prospettiva, appunto, essenziale, vorrei indirizzare le riflessioni su due questioni che ritengo “di sistema”: il work life balance e la sostenibilità.
D.
Bello. Poi mi spieghi che significa questioni di sistema, ma i temi sono questi. Soprattutto se stai parlando con una donna. Continua, vai
G. Non per sollevare una questione di genere, ma questi temi risultano fondamentali anche per gli uomini! Partiamo dalla considerazione che l’elemento più prezioso delle organizzazioni è il capitale umano, su cui consentimi di darne per scontata la fondatezza, sulla base della sterminata letteratura in materia. Aggiungiamo che, di conseguenza, la questione denominata people engagement o employee engagement– e cioè la misura del coinvolgimento del dipendente verso l’organizzazione – è prioritaria. E questa la vera sfida nel senso che… il problema – che vorrei richiamare – è questo e non un altro! Il coinvolgimento del lavoratore – da quanto ho percepito da familiari, parenti, amici, conoscenti e nell’ambito dei rapporti professionali – può ricondursi a come l’organizzazione tiene conto e affronta le sue (del lavoratore) esigenze di realizzazione, nella sua dimensione individuale e sociale.

D. Lo sai che è buffo? Tu parli di azienda e io penso agli amici della libreria. Cioè non c’entra nulla, non so se è di sistema o di altro, ma io non posso lavorare senza il coinvolgimento del cliente. Mi spiego meglio: se non conosco la sua esigenza ultima qual è, di un libro, ma anche di un gioco, se non so un po’ di lui, di come vive, di cosa fa, non posso consigliargli nulla. Per questo, ci metto sempre tanto. Perché poi le persone non ci sono abituate. Ed è strano perché si stupiscono che io stia lì, senza fretta e che li ascolti, che li guardi attentamente, soprattutto in una libreria. Qualcuno pensa di dare fastidio se è indeciso e io invece lì sono stimolata perché deve scattare quella cosa per cui dici sì, è questo il libro giusto.
G. Interessante.
D. Sì, ma diverso dal solito. Poi si abituano e sembra strano il contrario, almeno a me fa un effetto strano quando vado in un negozio ed è tutto veloce e un po’ asettico. Scusami, ti ho interrotto, continua, dicevi di dimensione individuale e sociale.
G. Sì, hai ragione è un problemone! La questione, infatti, è già molto complessa di suo, ma risulta anche affrontata inadeguatamente sotto il profilo culturale. (Approfondisco) Il work life balance è concepito, alternativamente, come uno strumento paternalistico aziendale, nei casi più favorevoli al lavoratore orientato a realizzare una sorta di welfare aziendale, senza che i due aspetti costituitivi, la performance aziendale e, appunto, il welfare work siano messi a sistema in un equilibrio virtuoso. Le modalità con cui è stato attuato lo smartworking ne sono la dimostrazione. Le persone non desiderano la comodità (ammesso che lo sia, considerato l’upgrade di effort denunciato a carico soprattutto delle donne) ma vorrebbero conciliare esigenze di lavoro e di vita, realizzando un equilibrio che consenta una crescita tout court di tutti gli attori.
D. Lo so, lo so. Questa cosa dello smartworking non funziona con tutti allo stesso modo. A qualcuno piace, a qualcuno piace ma solo per qualche giorno a settimana, qualcuno è rinato e qualcuno si è costituito.
G. Come costituito?
D. Sì, c’è stato un amico della libreria che ha detto «io ho chiamato il mio capo e gli ho detto da domani vengo in ufficio, da casa non so lavorare. Mi abbrutisco, non vedo nessuno, non parlo con nessuno».
G. Sì.
D. E qualcuno non si sente realizzato perché non stacca mai. E per le donne è un disastro, soprattutto in zona rossa con le scuole chiuse.
G. Ok. La seconda questione “di sistema”, la sostenibilità, potrebbe essere considerata come un “fattore abilitante” per poter partecipare al processo di miglioramento della nostra società: il coinvolgimento è uno degli input di questo processo.
D. Quello è un altro tema che mi sta a cuore. Il virus, da cui poi dipende, la diffusione dello smartworking, discende dalla mancanza di attenzione all’ambiente. La sostenibilità può essere la svolta. Lo stiamo capendo solo ora, pian piano.
G. Il concetto, inizialmente molto vago, sta rapidamente acquisendo maggiore concretezza: solo per fare un esempio, possiamo pensare ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 dell’ONU o ai KPI di Sostenibilità ESG (Environmental, Social and Governance) che le aziende stanno iniziando a sviluppare all’interno di tutta la catena del valore, non solo per una valutazione ex post ma soprattutto per anticipare le decisioni
e rafforzare un atteggiamento proattivo e non reattivo. In questo caso, solo se l’organizzazione risulta credibile nei suoi obiettivi e nella sua capacità di conseguirli, allora per il lavoratore sarà naturale sviluppare un virtuoso coinvolgimento.
D. Sì, ma quanti ne sono consapevoli? Quanto se ne parla? Hai pensato che la cosa che ci manca di più è proprio la possibilità di incontraci? Le occasioni di ozio creativo? Le cene? Le gite domenicali? Qui, più o meno, questo riusciamo ancora a salvaguardarlo. Lo facciamo chiacchierando mentre preparo i pacchetti, quando le persone passano per un saluto, è una relazione costruita nel tempo, giorno dopo giorno, saluto dopo saluto.
Ed è l’unico investimento che vale. È la mia unica imprescindibile incalcolabile risorsa.
Ha un collegamento con le organizzazioni che osservi tu per lavoro? Ci trovi qualche spunto?
G. Sì, sto pensando a quali sono le criticità: penso, oltre all’inadeguatezza di molte culture organizzative, alle carenze di professionalità (una cosa è dire cose giuste, un’altra è farle…) e all’incapacità di distinguere i vincoli con gli obiettivi (a esempio, il rispetto del “quadro normativo” rispetto alla soddisfazione dei bisogni dell’utenza/clientela).
Oppure «il problema è un altro»?
D. Bah, la domanda resta aperta. Magari, potremmo girarla alle aziende.